Alcune riflessioni su quello che ho visto a Londra.
1. tanto per chiarire preventivamente, Londra mi piace. Parecchio.
2. sulla divisione in classi sociali, riporto le considerazioni fatte in due chiacchierate con due amici italiani che vivono in Inghilterra da un po’. Innanzitutto sull’atteggiamento di chiusura che si nota nella working class. Segni distintivi esteriori, come gli orecchini grandi a cerchio delle ragazze o la trascuratezza nel portare i capelli, o di linguaggio, come l’uso di troncare alcune parole, vengono portati con orgoglio. Si esteriorizza e si fa manifesto di una condizione di esclusione rendendola immediatamente percepibile. Tuttavia questo atteggiamento non porta ad una rivendicazione, ad una lotta per uscire da un circolo chiuso ma, al contrario, chiude il cerchio sempre di più (auto?)confinandosi ai margini. Stride il contrasto con il fatto che l’Inghilterra sia stata la culla, già dall’800, delle Unions dei lavoratori. Mi chiedo cosa siano oggi le Unions e cosa abbia portato la classe lavoratrice storicamente più autocosciente d’Europa a questa apatia. Butto là alcune ipotesi: un sistema scolastico classista?, una tendenza a mantenere lo status quo, inteso come atteggiamento generalmente conservatore, anche da parte delle classi sociali escluse?, anni di Thatcher-Blairismo? ….. mah.
Digressione parigina. Rimasi molto colpita l’anno scorso quando, stando a Parigi per alcune settimane poco prima che scoppiasse la rivolta nelle banlieu, ebbi modo di parlare con una ragazza parigina. Lei mi raccontava di come la stratificazione sociale fosse nettissima e quasi totalmente invalicabile. E anche qua il linguaggio era la prima barriera. Linguaggio non solo come scelta delle parole ma anche come uso di costruzioni grammaticali piuttosto che altre (i famosi tre livelli della lingua francese). Mi portava due esempi: in francese standard le domande si fanno anteponendo “est ce que” alla frase interrogativa; le classi basse, gli immigrati ecc. usano invece solo un accento finale interrogativo, mentre le classi altoborghesi, e solo quelle, usano l’inversione soggetto-verbo per esprimere interrogazione. Il secondo esempio era lessicale: le classi basse chiamano bagnole la macchina, le altre volture. Ora, il punto è che appena apri bocca vieni etichettato e, se cresci sapendo solo usare il termine bagnole, è difficile che se cerchi lavoro tu possa aspettarti molto di più che un impiego da shampista. E anche qui mi parlava dell’orgoglio e della chiusura delle classi lavoratrici verso l’esterno. Fino al punto di inventare un linguaggio, il verlain, pressoché incomprensibile a tutto il resto del mondo.
3. Sulle politiche ambientali e di trasporto. Per entrare in centro a Londra con la propria auto si pagano 8£ al giorno di “congestion charge”. Il 90% in meno se si è residenti. Scopo del gioco è evidentemente scoraggiare il trasporto privato a favore di quello pubblico. Bravi! Due considerazioni però: la prima è che permettersi questo serve un sistema di trasporto pubblico super efficiente (penso all’Italia… come sarebbe possibile?); il secondo è che chi è molto ricco non ne viene toccato perché le 8£ può permettersele e quindi sceglie di continuare ad usare la Mercedes invece che prendere la metro. Comunque bene lo stesso, se l’aria diventa più respirabile il beneficio è di tutti.
4. Sui caffè. Esistono tre catene di caffè che si trovano praticamente ovunque in città. Il caffè è buono (specialmente da CaffèNero, secondo la personalissima preferenza della scrivente!) ma quello che mi è piaciuto è che nessuno ti forza ad affrettarti ad andartene dopo aver consumato. Le persone leggono, conversano e, dato che c’è quasi sempre a disposizione un hot spot wifi GRATUITO, usano il proprio computer liberamente. Bello!
5. Resta alla fine la considerazione che Londra sia una città da ricchi. Se non hai soldi a sufficienza, meglio starne alla larga, perché può farti sentire molto escluso…. E standoci pochi giorni non ho ovviamente avuto idea di cosa sia là il sistema sanitario o lo stato sociale in genere. Mi ha comunque inquietato un’opera d’arte installata temporaneamente al piano terra del British Museum. Il titolo, significativo, è “From cradle to grave” e, in un tessuto leggero con piccolissime tasche lungo molti metri, raccoglie le circa 14000 pillole che un inglese medio assume durante la sua vita. Sommando questo al fatto che i medici di base inglesi, come mi raccontava un amico, prescrivono solo ed esclusivamente potenti antidolorifici qualsiasi cosa tu abbia, il quadro non è proprio idilliaco.
6. Mi è capitato di perdere il telefono. Compro una sim inglese e confermo che non esistono costi di ricarica né, tantomeno, l’obbligo di dare codice fiscale e documento d’identità quando la si acquista.
7. Da ultimo lascio la cosa più dolce: gli smoothies! Fantastici, sono delle bevande molto dense fatte con frutta pressata o a base di yogurt. Riporto quello che sta scritto sull’etichetta degli Innocent, forse i più buoni. “once upon a time, people weren’t around. They hadn’t been invented. Sure, there were flying squirrels and giant reptiles, but not people. Just think – no cars, no motorways, no houses, no pocket watches or polystyrene cups. No hairdresser, no fried chicken, no waltzers and no Kevin Costern movies. No telly. No magazines. No golf clubs. No nothing. Not even smoothies. Weird.” E più in basso, nell’etichetta: “An innocent promise. We promise that anything innocent will always taste good and do you good. We promise that we’ll never use concentrates, preservatives, stabilisers, or any weird stuff in our drinks. And if we do you can tell our moms.” Sarà anche merchandising, ma questa versione mi piace!